Kitabı oxu: «Il nome e la lingua», səhifə 7

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Dopo riuniti li baliaggi in un solo Cantone, dopo fatte le nuove strade, moltiplicati e agevolati i punti e i mezzi di contatto, le differenze del vernacolo vanno divenendo meno forti; e quel dialetto che abbiamo detto essere proprio delle città e borgate divien famigliare presso buon numero di colte e agiate famiglie sparse ne’ villaggi.15

Anche in questo caso FransciniFransciniStefano ha forse presente una fonte settecentesca, in opposizione alla quale sembra presentare i suoi argomenti. Una considerazione analoga è infatti proposta nelle citate Lettere sopra i baliaggi italiani di BonstettenBonstettenKarl Viktor von. In termini peggiorativi, nella lettera relativa al Viaggio d’agosto attraverso il baliaggio di Valmaggia e della Lavizzara, il bernese osserva che

Un tratto singolare di queste valli, ma anche della maggior parte dei villaggi della Svizzera italiana, è la varietà della lingua e dell’abbigliamento, varietà percepibile da un luogo all’altro già a mezzora di cammino […] Questa varietà di lingua, di abbigliamento e di usanze è forse la prova di come, nel carattere italiano, ci sia qualcosa di associale, di riservato, di sospettoso; per questo qui si osserva poco commercio e poca scienza.16

La forte identità comunale si riflette, infine, anche in un peculiare aspetto del lessico. Le numerose espressioni popolari o blasoni, sedimentati nel linguaggio volgare e raccolti nella scheda Soprannomi degli abitanti di paesi, circoli e distretti della Svizzera italiana contenuta nel secondo volume del RID, testimoniano, nella loro importanza numerica e con la loro caratterizzazione municipale, la continuità anche primonovecentesca della frammentazione comunale tipica della Svizzera italiana.17

1.4. Il Grigioni e il topos del “cattivo italiano”

Il mosaico linguistico risulta ancora più complesso se si includono nel quadro complessivo le tre regioni del Grigioni italiano, non contemplate nella riflessione presentata da FransciniFransciniStefano nel capitolo sul Linguaggio. Questa negligenza mostra le difficoltà e i limiti intrinseci al progetto della Svizzera italiana, percepibili nell’organizzazione stessa dell’opera. Infatti, un’ampia trattazione è riservata al Cantone Ticino mentre le considerazioni sul Grigioni italiano sono relegate in una breve appendice in calce al secondo volume.1 In questo complemento, gli abitanti italofoni del Grigioni sono definiti di cultura ancipite: ossia, sono descritti come individui di origine italiana contaminati dalla cultura tedesca. Un’analoga considerazione è avanzata per i valtellinesi da Pietro Angelo LavizariLavizariPietro Angelo nell’opera Memorie storiche della Valtellina, stampata a Coira nel 1716 per i tipi di Andrea Pfeffer: «Il linguaggio è italiano, come anche universalmente i costumi: temperati però dalla candidezza ed ingenuità tedesca»; con due aggettivi, peraltro, insoliti per qualificare il tipo tedesco.2 Il dato linguistico e l’orientamento confessionale risultano fondamentali nella distinzione tra grigioni e ticinesi; questi ultimi costituirebbero la sola comunità «veramente italiana» secondo FransciniFransciniStefano. Infatti, se il popolo ticinese era legato alle diocesi comasca e ambrosiana e sapeva esprimersi nel «bel linguaggio del sì», la situazione differisce notevolmente nelle valli italiane del Grigioni:

La Bregaglia è abitata da una razza che ha dell’italico e del tedesco. La fisonomia, il linguaggio e la vivacità costituiscono un popolo italiano; ma il culto protestante e molte abitudini della vita additano il carattere retico-svizzero. Quanto è al linguaggio, esso consiste in un dialetto che sarebbe ben malagevole a intendersi da’ gentili abitatori dell’Arno.3

Non diverge sostanzialmente la descrizione proposta per gli abitanti della Val Mesolcina e della Calanca, anch’essi, infatti, «per linguaggio, fisionomia e abitudini sono italiani; ma a parecchi tratti si rende manifesta una certa affinità cogli oltramontani tedesco-reti».4 Quello del cattivo italiano, o dell’italiano corrotto, è un motivo che non emerge isolatamente nella trattazione di FransciniFransciniStefano. Ad esempio, nel sedicesimo volume della Nuova Geografia, il poligrafo tedesco Anton-Friedrich Büsching annota che «Nelle Valli Pregalia, e Misacina si parla un cattivo italiano».5 Non diversamente, Giovanni Francesco PivatiPivatiGiovanni Francesco nel Dizionario Scientifico e Curioso Sacro-Profano, pubblicato a Venezia nel 1750, sotto la voce lega, dedica un breve paragrafo alle lingue in uso nel territorio della Lega Grigia:

Gli abitanti della Lega Grigia hanno tre sorte di lingue, parlando alcuni Tedesco, altri Italiano, e il rimanente servendosi di un certo gergo, che appellano Romano, meschiato d’Italiano, o di Latino e della lingua degli antichi Leponzj. Presso le sorgenti del Reno superiore, e nella valle di Domglesch si parla tedesco; nella valle di Sciams, che giace fra le due, adoprasi il linguaggio accennato; nella valle di Masox [valle di Mesocco: la Mesolcina] si parla un cattivo Italiano, e nel Rheinsvald, come pure nelle Giurisdizioni di Tavetsch, d’Oberfax, di Stuffau, di Tenna, di Vals, e di Cepina si parla Grigione.6

Anche CherubiniCherubiniFrancesco negli appunti preparatori della Dialettologia italiana, al secondo titolo, quello relativo al Dialetto valligiano italo svizzero, avanza considerazioni analoghe sulla lingua parlata nelle vallate italofone del Grigioni. Al capitolo ottavo del manoscritto, relativo al Suddialetto mesolcino e calanchetto, il lessicografo annota che gli abitanti di questi territori parlano un vernacolo «consistente in un italiano corrottissimo misto in parte di romanzo dato loro dai passati rapporti politici e dalla tuttora continuante soggezione ecclesiastica al Vescovo di Coira».7 Nella breve postilla per il Suddialetto Poschiavino, CherubiniCherubiniFrancesco appunta inoltre che «il vernacolo è italiano di fondo affine al Valtellinese della prossima Tirano, ma stranamente alterato con il romanzo-ladino proprio dell’Alta Engadina e col Lombardo».8 Infine, anche per quanto concerne il Suddialetto bregaglino il lessicografo rileva l’impiego di «un italiano corrottissimo che sente di Valtellino e di Romanzo».9 Le stesse considerazioni sono schematizzate in un appunto autografo conservato in un codice miscellaneo contenente i materiali relativi al progetto della Dialettologia italiana. Nel breve indice manoscritto, che classifica le varietà del Valligiano-svizzero-italiano (antichi Baliaggi italiani), si legge una sintetica annotazione sulle Valli Mesolcina, Calanca, Bregaglia e Poschiavo (indicate erroneamente come soggette al potere dei Grigioni), che qualifica la loro lingua come un «italiano corrottissimo»; mentre le varietà di Lugano e Mendrisio sono considerate «lombardo milanese corrotto».10

Il topos del cattivo italiano non si limita alle vallate grigioni di lingua italiana ma riguarda allo stesso modo la Lombardia svizzera e in anni più recenti il Cantone Ticino; in opposizione o rovesciando il topos del buon italiano osservato sopra. Lo stesso Busching, ad esempio, nel diciannovesimo volume della Nuova Geografia allarga la portata della sua osservazione alla geografia ticinese, al chiavennasco e alla Valtellina:

Si parla Italiano più, o meno guasto nella valle Misolcina, nella parte Superiore della Lega Grigia, e nelle Giudicature della Valle Livina, o sia Lepontina, di Bollenza, Riviera, Bellenza, Lugano, Locarno, Mendrisio, Maggia, come pure nella Valtellina, nella Chiavenna, e nella provincia di Bormio.11

Non diversamente, l’erudito e parroco zurighese Johann Conrad FäsiFäsiJohann Conrad, nella sua descrizione geografico-istituzionale della Confederazione svizzera intitolata Genaue und vollständige Staats- und Erd-Beschreibung der ganzen Helvetischen Eidgenossschaft, derselben gemeinen Herrschaften und zugewandten Orten (1765-68), nel paragrafo dedicato alla Valle di Blenio, registra un’impressione analoga, poi estesa anche agli altri baliaggi cisalpini: «la lingua locale di questo e degli altri baliaggi è un cattivo italiano», probabilmente riferendosi alla parlata dialettale, aspra e palatalizzata (ad esempio, la semipalatalizzazione delle consonanti occlusive velari /kj/ e /gj/), del lombardo rustico.12 Anche SchinzSchinzHans Rudolf, parallelamente al passo citato sopra, nei Beyträge si esprimeva in termini analoghi sull’italiano diffuso in alcuni baliaggi cisalpini. Per quanto concerne il popolo della Leventina, lo zurighese dichiara che «la loro lingua è un pessimo italiano corrotto, misto di diverse parole tedesche storpiate».13 Ricollegandosi a questa considerazione, SchinzSchinzHans Rudolf indica inoltre che la lingua parlata nel distretto della Riviera «è un italiano corrotto e incomprensibile».14 Come testimoniano parte degli esempi citati, questa caratteristica è rilevata con particolare frequenza nell’alto Ticino, dove le varietà vernacolari si distanziano più nettamente sul piano fonetico dall’italiano standard, prestandosi a equivoci e miopie critiche di vario genere. A questo proposito, nella cronaca del suo viaggio nella Lombardia svizzera del 1776, l’ispettore Jean-Roland Marie de la PlatièrePlatièreJean-Roland Marie de la scrive che da Airolo «si comincia a farfugliar l’italiano» e definisce la lingua parlata dal Gottardo fino a Bellinzona un «Lombardo-tedesco»; una considerazione, questa, dovuta a un fattore impressionistico e non a una reale consapevolezza dell’influsso del tedesco sui dialetti lombardo-alpini.15 A riprova dei frequenti malintesi, il pastore anglicano William CoxeCoxeWilliam nel suo Travels in Switzerland, che raccoglie le cronache redatte durante i viaggi compiuti attraverso la Svizzera sulla rotta del Grand tour, pubblica una lunga lettera Sui baliaggi italiani ricevuta da David PennantPennantDavid, nella quale si trova un’ulteriore testimonianza dell’equivoco linguistico. Nella missiva il vernacolo impiegato nella Lombardia svizzera è addirittura confuso con il tedesco: «La maggior parte degli abitanti capisce l’italiano; la loro lingua, però, è un tedesco corrotto».16

D’altronde anche la varietà più prestigiosa del gruppo lombardo occidentale, il volgare milanese, è tradizionalmente percepita in modo negativo, come una parlata rozza. Lo documenta, ad esempio, il testo IX compreso nella Prima parte delle Novelle di Matteo BandelloBandelloMatteo, nel quale l’autore sostiene che alle giovani donne milanesi, generalmente piacenti e gentili, non manchi nulla se non una lingua all’altezza delle loro qualità:

In queste adunque delicatezze, in queste pompe e in tanti piaceri e domestichezze essendo le donne di Milano avvezze, sono ordinariamente domestiche, umane, piacevoli e naturalmente inclinate ad amare e ad essere amate e star di continovo su l’amorosa vita. E a me, per dirne ciò ch’io ne sento, pare che niente manchi loro a farle del tutto compite, se non che la natura le ha negato uno idioma conveniente a la beltà, ai costumi e a le gentilezze loro. Ché in effetto il parlar milanese ha una certa pronunzia che mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende. Tuttavia elle non mancano con l’industria al natural difetto supplire, perciò che poche ce ne sono che non si sforzino con la lezione dei buon libri volgari e con il praticare con buoni parlatori farsi dotte, e limando la lingua apparare uno accomodato e piacevole linguaggio, il che molto più amabili le rende a chi pratica con loro.17

Nella novella XXXI della Seconda parte, composta tra il 1522 e il 1525, la varietà cittadina è ritenuta inferiore anche alle parlate più decentrate, genericamente lombarde, e perfino del bergamasco, tipicamente sfruttato nella Commedia dell’arte come blasone o macchietta vernacolare per la sua peculiare asprezza, qui usato come paragone “forte”, senza reali intenzioni di giudizio linguistico:

E se io domando loro per qual cagione non vogliono che io dica bene de la patria mia, altro insomma non mi sanno che rispondere, se non che il parlar milanese è troppo più goffo che parlar che s’usi in Lombardia, e quasi che non si vergognano a chiamarlo più brutto che il bergamasco.18

1.5. La lingua di FransciniFransciniStefano

Il capitolo sulla lingua proposto nella Svizzera italiana, coerente con analoghi approfondimenti nelle opere statistiche che fungono da modello, mette a sistema nella descrizione storico-statistica, in funzione della propria tesi, il materiale ricavato dagli studi linguistici prodotto sostanzialmente negli anni ’20 e fino a quel momento al servizio esclusivo di altri. In questo giro di anni le energie e gli interessi di FransciniFransciniStefano furono mediati o filtrati dall’impegno politico; questo anche per quanto concerne l’educazione, per la quale si impegnò in ambito sociale promuovendo importanti iniziative, a scapito della diretta produzione di sussidi didattici. Lo testimonia FransciniFransciniStefano stesso in una lettera scritta a CherubiniCherubiniFrancesco il 27 settembre del 1836 da Bellinzona, nella quale riconosce che «Ormai gli studi sono poca cosa e [quella] poca ha sempre o consanguineità o ‹ill.› con la politica».1 La sua carriera è ormai saldamente orientata verso quest’ultima, mentre l’interesse linguistico, da sempre marginale, viene meno: valga come esempio il fatto che FransciniFransciniStefano non nutriva alcuna preoccupazione per lo stato attuale della lingua e non partecipò al dibattito sulla questione linguistica che coinvolse gli intellettuali e i letterati contemporanei, tra i quali va ricordato perlomeno Carlo CattaneoCattaneoCarlo, amico dello statista dal periodo milanese e residente per molti anni a Lugano.2

Oltre ad aver riorientato il suo interesse attivo e aver indirizzato i suoi studi verso la storia e l’economia, è ipotizzabile che FransciniFransciniStefano ignorò il dibattito sulla lingua anche perché era in difetto di sicurezza e forse privo dei mezzi necessari per contribuire produttivamente alla querelle.3 Determinanti, a tale proposito, furono la formazione da autodidatta basata sulla modesta istruzione offerta dal seminario di Pollegio e l’isolamento culturale vissuto negli anni leventinesi successivi al periodo di Milano. Le lettere che lo statista indirizza a CherubiniCherubiniFrancesco, punto di riferimento per quanto concerne lo studio della lingua e dell’espressione scritta, documentano questa insicurezza. FransciniFransciniStefano si rivolge al lessicografo per ottenere alcuni testi che l’isolamento ticinese rendeva difficili da reperire attraverso vie ordinarie. Intenzionato a rimediare a questa condizione, nella lettera del 26 aprile 1826 prega CherubiniCherubiniFrancesco di mediare, in occasione di una trasferta della moglie a Milano, l’acquisto di alcuni volumi:

Vorrei si desse la pena di dare in nota a mia moglie qualche opera del Giordani e del P. Cesari, de’ quali non ho nulla e vorrei avere qualche cosa, non però volumi troppo costosi.

Ho pochissime prose antiche, anzi per ispiegarmi meglio, ho solo quelle del BoccaccioBoccaccioGiovanni e del MachiavelliMachiavelliNiccolò e qualche lettera di autori antichi. Di grazia si compiaccia me donner des renseignemens. S’Ella potesse privarsi di quegli opuscoletti del GherardiniGherardiniGiovanni su alcune voci e frasi riputate barbare! Non ne starebbe senza per qualche semestre?4

Oltre a un aiuto per colmare le proprie le lacune linguistico-letterarie, FransciniFransciniStefano chiede in prestito al lessicografo alcuni opuscoletti allestiti da Giovanni GherardiniGherardiniGiovanni. Questi fascicoli, poi confluiti nelle Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi (1838-40), sono uno strumento utile per il ticinese al fine di verificare ed emendare l’uso di regionalismi o di espressioni improprie nella lingua scritta. Per quanto concerne l’insicurezza ma anche la cura e l’attenzione rivolta da FransciniFransciniStefano agli aspetti linguistici, nella già menzionata lettera del 5 agosto del 1824 lo statista consulta CherubiniCherubiniFrancesco, ritenuto un valido interlocutore. Nella missiva sono sottoposti al giudizio del lessicografo alcuni articoli statistici pubblicati nei mesi precedenti sulla stampa ticinese, che valsero a FransciniFransciniStefano delle critiche in merito alle scelte lessicali e stilistiche impiegate:

Per l’organo del S.r VeladiniVeladiniFrancesco mi sono pervenute alcune critiche ai miei articoli statistici, la sostanza delle quali consiste in ciò che segue: 1° il Clero principalmente prese in sinistra parte la mia espressione educazione del bestiame; 2° lo stile non par troppo coinciso; 3° apparisce poco buon gusto nel mio scrivere […] pure avrei molto caro che Ella si compiacesse di esaminar un po’ que’ miei scritti e darmene suo libero giudizio. In verità spero che da Lei non verrò tacciato di cattivo gusto ché troppo io procuro di correr la via battuta da’ buoni scrittori, schivando a tutta forza di gambe quella degli ampollosi, degli affettati e degli oscuri e confusi dicitori.5

Sono sufficienti questi pochi passi per documentare la scarsa fiducia del ticinese nel proprio mezzo espressivo.6 Una condizione, questa, che lo portava a disporre di una lingua di base arcaica e ancorata ai modelli della tradizione letteraria italiana.7 Tuttavia, questo limite non gli impedì di adeguare la sua scrittura tendenzialmente conservatrice all’ambizione e agli obiettivi della sua opera maggiore. Nella Svizzera italiana FransciniFransciniStefano si serve di un lessico più ampio per esprimere concetti e referenti settoriali, e di conseguenza descrivere in maniera efficace la realtà etnografica, antropologica e culturale della Svizzera italiana – fino all’uso, consapevole e rilevato graficamente, della terminologia dialettale.8 La lingua della Svizzera italiana è in sostanza disponibile a ricevere regionalismi o dialettalismi italianizzati ed è permeabile all’influenza delle lingue confederate, secondo una dinamica coerente con l’ideologia che motiva l’opera stessa. In linea con le sue esigenze in quest’àmbito, per concludere il breve excursus, FransciniFransciniStefano fu uno scrittore chiaro ed elegante nell’esposizione dei contenuti, come testimoniano ad esempio i testi raccolti nella recente edizione degli Scritti giornalistici (1824-1855), che documentano la sua attività di articolista.9

1.6. La denominazione “Svizzera italiana”

La denominazione “Svizzera italiana”, oggi accolta nel linguaggio comune e diffusa con il significato stabilito da FransciniFransciniStefano, presenta nell’opera omonima dei limiti intrinseci. La riflessione condotta nella Svizzera italiana importa però per la sua tensione verso un’ideale, verso un modello politico e identitario sintetizzato nel sintagma promosso da FransciniFransciniStefano: una formula che risulta peraltro irreprensibile sul piano teorico. Tuttavia, per una ragione storica, la sua fortuna non fu immediata. La generazione nata negli ultimi decenni del Settecento si percepiva infatti come lombarda. E anche quando il sentimento patriottico era rivolto oltralpe, alla Svizzera, spesso mancava un un’identità collettiva sul piano regionale. Mi sembra esemplare a questo proposito la minuta di una lettera del segretario di Stato e granconsigliere ticinese Vincenzo Dalberti,DalbertiVincenzo scritta il 4 novembre 1829 e indirizzata a Rothplez. Nella missiva si percepisce da un lato come il Ticino ottocentesco cercava nello spirito rustico e nella civiltà montanara la propria forma; dall’altro, risulta evidente come a quest’altezza cronologica mancava un sentimento forte e coesivo sul piano cantonale, a maggior ragione se consideriamo che lo scrivente è un uomo politico:

Pour moi je prefère la vallée sauvage où j’ai une maisonette [valle di Blenio], au pied du Luckmanier, à la riche plaine de Mendrisio; car la richesse n’est point celle d’un paysan, mais celle d’un fermier lombard. Il me semble impossible que là-bas la population soit jamais suisse, malgré les affirmations de quelques braves gens qui se cramponnent (pour le bien de la patrie, sans doute et en vertu de l’égalité) aux emplois de la Republique. Les pauvres montagnards, au contraire, qui dejà sous l’ancien règime avaient des moeurs suisses, et se donnaient pour tels avec orgueil, pourraient aisément marcher à côté des ainés de la Confédération. Il suffirait qui l’on fit quelque chose pour rehausser l’esprit public, beaucoup déchu dans les dernières vicissitudes, et que par des institutions nationales, amalgamant les intérêts des particuliers avec ceux du public, on nous attachât à une véritable patrie. Mais cela viendra avec le tems.1

Inutile dire, dunque, quanto moderna e difficile da ricevere potesse essere l’identità intercantonale promossa nella Svizzera italiana. Anche per FransciniFransciniStefano, ben acclimato nella cultura d’oltralpe e attivo in àmbito confederale, ancora oltre la metà degli anni ’30 la denominazione politico-culturale era suscettibile di oscillazione.2 Ovvero esitava tra la locuzione oggi diffusa, nella quale la nazione politica in forma sostantivata regge l’attributo riferito all’appartenenza culturale, e la formula che inverte in modo significativo i rapporti logici e sintattici di sostantivo e aggettivo, cioè di determinato e determinante: “Italia svizzera”. Nella lettera indirizzata a CherubiniCherubiniFrancesco il 26 aprile 1837, ad esempio, riferendosi alla stampa del primo volume della Svizzera italiana, FransciniFransciniStefano scrive: «Fra pochi giorni darò alla luce una mia descrizione storico-statistico topografica dell’Italia svizzera, di cui per commissione di un libraio di San Gallo è già a stampa la traduzione tedesca».3 L’inversione degli elementi della denominazione non si limita a questa occorrenza, che potrebbe essere condizionata dalla provenienza del corrispondente, ma si ripete anche nella stessa Svizzera italiana, la quale, in un primo progetto, doveva essere intitolata proprio Italia svizzera.4 Nel paragrafo Belle arti, incluso nel capitolo dedicato agli Uomini illustri, FransciniFransciniStefano riconduce alla “Italia svizzera” le eccellenze artistiche prodotte dai Baliaggi cisalpini, che in effetti Svizzera italiana non erano:

I Fontana, i Maderno, i Cantoni, i Rusca, gli Albertolli sono pel Ticino una fonte di gloria immortale. Le più cospicue città d’Italia, Torino, Milano, Genova, Bologna, Roma, Napoli e più altre, Germania, Spagna, Russia van debitrici di insigni opere a valorosi artisti dell’Italia Svizzera.5

Se quest’ultimo esempio potrebbe essere letto come un adattamento della locuzione “Lombardia svizzera”, oggi impiegata dalla storiografia, un’ulteriore testimonianza compresa nella versione aggiornata della Statistica della Svizzera non lascia margine di dubbio. Nella Nuova statistica della Svizzera italiana, pubblicata nel 1847, FransciniFransciniStefano accosta le due denominazioni, ritenute perfettamente sinonimiche: «V. Svizzera meridionale. Si stende sul pendio meridionale delle Alpi, e consiste nel Cantone Ticino e nella Mesolcina de’ Grigioni: è la Svizzera italiana o l’Italia Svizzera».6 La denominazione alternativa, che più avanti acquisterà una connotazione ideologica, con palesi sfumature di significato, non genera incongruenze nella proposta di FransciniFransciniStefano. Quest’ultimo, con intelligenza e con una visione politica emancipata dal vincolo di corrispondenza tra lingua e nazione, interpreta al meglio la situazione politico-culturale elvetica. Ovvero, concepisce la Svizzera come una federazione non solo politica ma anche culturale e linguistica, una Willensnation nel senso più pieno del termine. Nella sua visione politica la difesa della specificità culturale italiana, che va conservata e legittimata nelle dinamiche confederali come elemento primitivo e stabile, convive senza contraddizioni con la promozione della conoscenza della cultura d’oltralpe e di una vicenda storica e politica almeno in parte condivisa:

Il Ticinese e pel clima e per le Alpi e per la diversità del linguaggio e per alcune altre circostanze, in parte ha interessi economici diversi da quelli de’ suoi Confederati, in parte non è bene al fatto delle cose svizzere e de’ bisogni della ben avventurata Confederazione a cui il suo paese si trova ascritto; ma pure egli è affezionato all’Elvezia, e cara gli è la ricordanza dei Tell e de’ WinkelriedWinkelriedArnold de, ed è superbo di portare il nome di Svizzero.7

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