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(8) L'ALCHIMISTA


Quando uscii nel Cortile delle Rondini, cadevano fiocchi di neve, larghi e radi. La prima neve d’inverno.

Mi fermai un momento a guardane la neve che scivolava attraverso la luce delle finestre.

Il cortile era quasi deserto, a quell'ora e con la neve. Avrei potuto tornare a casa passando per i corridoi interni di Morraine, ma non mi andava di incontrare gente.

Dovevo fare in fretta, altrimenti rischiavo una punizione. Poi pensai: che importa? Tanto non avrò niente da fare domani...

Ma forse voi vi starete chiedendo cosa sia la neve. Vi rispondo: è una specie di pioggia soffice e bianca, come la lanugine di certe piante; si posa sulle cose e le ricopre, e più cade più si accumula, anche parecchie braccia in certi posti, e non se ne va finché il caldo non la scioglie...

Così presi a camminare, senza meta, da un cortile all’altro, ciascuno più bianco del precedente. I negozi e le botteghe stavano chiudendo. Le donne, avvolte negli scialli, correvano a fare gli ultimi acquisti per la cena. Alcuni bambini cominciavano a lanciarsi palle di neve, ma io non ero certo dell’umore adatto. E in ogni caso non ero più un bambino.

La sconfitta era tanto più cocente perché giungeva imprevista. Mi diedi mille volte dello stupido, ripensando a tutti gli errori commessi. Ma in quel momento, l’ultima cosa che mi sentivo di fare era riprovarci. Odiavo il teatro con tutte le mie forze.

Mi fermai sotto la neve che ormai cadeva fitta. Mi trovavo nel Cortile della Fenice. Come le mie speranze: bruciate. La rinascita?... Ebbi un brivido. Rischiavo di prendermi una malattia. Tanto meglio: avevo una gran voglia di essere compatito.

Mi infilai nell’androne che portava nel Cortile Dorato, e aveva sulla chiave di volta una mezzaluna con un uccello fra i due corni. Una sola luce tagliava a metà il lungo corridoio buio. Doveva essere la vetrina di un negozio, ma conoscevo poco quella zona di Morraine, che era piuttosto distante da casa mia.

Davanti alla vetrina pendeva un'insegna a malapena illuminata dalla luce della vetrina: decifrai a fatica una civetta che stringeva fra gli artigli un rotolo di carta o pergamena; una scritta che non riuscii a leggere. Sbirciai dentro. Una bottega di libraio, con un cliente di spalle, che esaminava qualcosa su un bancone, e il proprietario in cima ad una scaletta, che gli porgeva dei rotoli. Il cliente si voltò per dire qualcosa al proprietario. E lo riconobbi.

Era il giovane biondo, che avevo visto nella torre insieme a Lelius.

Non ricordo cosa pensai, né quanto tempo rimasi lì davanti alla vetrina. So che mi ritrovai dentro, fingendo di rovistare fra i libri. Il proprietario mi lanciò un’occhiata sospettosa. Il giovane biondo non mi degnò di uno sguardo.

Trovai uno scaffale di libri di seconda mano, non molto lontano dal bancone e dal giovane, che anche quella sera vestiva di nero. Non osavo guardarlo, sebbene di certo lui non mi potesse riconoscere, ma sbirciai sul banco. Era coperto di atlanti e di mappe.

– Ecco, questa è molto antica – disse il proprietario, porgendo un foglio ripiegato più volte al suo cliente. Il giovane alchimista lo aprì con cura. Sul bancone si spalancò un mare. Era tale l’illusione di profondità, che mi misi a fissarlo come incantato. In mezzo alla carta spuntava un’isola, verde smeraldo, ocra e madreperla; da un lato della mappa, coste frastagliate protendevano cinque dita di roccia che formavano una mano, e vene di fiumi versavano le loro acque nel mare. Sottili nervature grigie rivelavano la presenza di strade, e minuti rettangoli rossi quella delle case. Per attimo mi ricordai di quel pomeriggio in cui il carro mi aveva investito, e mi ero ritrovato sospeso in aria: sebbene da un’altezza minore, le cose mi erano apparse con la stessa nitida precisione della mappa.

Il giovane spianò il foglio con un gesto brusco della mano. E di colpo il mare, le terre, i fiumi, le strade, tornarono ad essere solo chiazze di colore, mescolate a parole in un alfabeto sconosciuto, che prima non avevo notato.

L’alchimista osservò a lungo la mappa, con le sopracciglia aggrottate. Il padrone sulla sua scala, io in basso con un libro in mano, attendevamo nel massimo silenzio. Infine il giovane scosse la testa. – No, non può essere – mormorò fra sé.

Il venditore di libri emise un sospiro deluso. Scese dalla scala. – Non ho altro – disse. Si voltò bruscamente dalla mia parte. – Tu cosa vuoi?

Io sollevai un libro che avevo in mano. – Quanto costa?

– Nove piastre. – Mi sembrò che avesse detto un prezzo a caso.

– Quando ne avrete altre? – chiese l’alchimista.

– Ah, voi mi chiedete troppo! – Il negoziante agitò le mani davanti a sé. Era un ometto grassoccio, la faccia rotonda e bianca su cui sembrava dipinta una barba nera e cortissima; indossava una sorta di caffettano color ruggine e un berretto con dei ricami in oro. – Queste sono cose rare, antiche... entrarne in possesso è concessione della sorte e frutto di pazienza.

– Bah! – Il cliente non pareva impressionato. – Comunque, non c’è niente che mi interessi. – E senza aggiungere altro, girò sui tacchi e uscì.

Io contai in fretta e furia nove monetine quadrate di rame, le misi in mano al libraio, che mi guardò con aria perplessa, e uscii a mia volta. Non sapevo nemmeno cosa avessi comprato.

Nell’androne buio, non c’era traccia del giovane vestito di nero. Non era possibile! Poi intravidi una macchia chiara che si muoveva alla mia sinistra. I suoi capelli! Corsi quanto più silenziosamente potevo.

Ormai tutti i negozi e le botteghe erano chiusi, le uniche luci venivano dalle finestre. I bambini avevano smesso di giocare a palle di neve, ed erano andati a casa a mangiare. Io e l’alchimista sembravamo le uniche creature rimaste ad aggirarsi nei cortili di Morraine.

Seguirlo sulla neve era facile, grazie alle impronte e al mantello nero. Ma quando prendeva per corridoi e androni, si confondeva con le ombre, ed io non osavo avvicinarmi troppo, per paura di essere scoperto.

Almeno tre volte temetti di perderlo. Ormai non sapevo più dov’ero: la neve fitta, il buio, l’affanno dell’inseguimento mi avevano completamente disorientato.

Entrammo infine in un cortile piccolissimo, in realtà poco più che un pozzo quadrato, che non conoscevo, e c’era da dubitare perfino che avesse un nome. Il vento, che soffiava attraverso l’androne, stretto come un cunicolo, aveva accumulato la neve da un lato del cortiletto. Intravidi per un attimo la forma nera dell’alchimista, dall’estremità del passaggio. Quando arrivai nel cortile, scoprii sulla neve le sue impronte; ma queste sparivano poco più in là, su un pezzo di acciottolato umido e quasi oleoso, sgombro di neve. Con orrore, mi accorsi che il cortile non possedeva una seconda uscita: questo era quasi inconcepibile per Morraine! E dell’alchimista biondo non era rimasta alcuna traccia. Mi ritrassi nel buio dell’androne, cercando di calmare l’affanno e i brividi. Ci misi un po’ a riprendere coraggio. Nessuna luce filtrava dalle finestre del cortile. A tentoni ne percorsi il perimetro, e mi ritrovai all’imboccatura dell’androne, senza aver scoperto alcuna porta.

Rimasi lì ancora un po’, in attesa non so di cosa. Poi tornai indietro, cercai di decifrare la figura sulla chiave di volta all'ingresso dell'androne, ma era troppo buio, e l'unica soluzione fu tenere a mente il percorso fino al primo punto di riferimento noto. Fu solo allora che mi resi conto di non trovarmi molto distante dal Cortile Segreto.

Arrivai a casa con i piedi e i capelli inzuppati. Raccontai che ci eravamo fermati a giocare con la neve, e me la cavai senza una punizione troppo severa.

Andai a letto subito dopo cena, con un senso di stordimento, che nel corso della notte si trasformò in febbre.

Ma prima mi ricordai del libro che avevo acquistato per nove piastre. Lo presi e ne lessi il titolo.

FIORI DI CANDIDO GIARDINO

Ovvero

DELL’ARTE RETORICA

Libri cinque Illustrati con sceltissimi e perpetui essempli degli Autori dell’Età Aurea

Composti dal Venerabile ed Eccellentissimo

Maestro ALOYSIUS ALEXIDES

Protoscriba dell’Accademia di Tutte le Lettere

Con l’aggiunta delle

ISTITUZIONI POETICHE

Recentissimamente redatte dal

Dottissimo Reggitore DYEGIS MACRINUS

Della medesima Accademia

(9) IL CORTILE SENZA NOME


Mi svegliai nel silenzio che segue una fitta nevicata, che è diverso da ogni altro silenzio perché la neve pare assorbire ogni suono, e impossibile da descrivere a chi è sempre vissuto nel deserto.

Mi svegliai da una serie confusa di sogni, di cui ricordavo solo un’immagine inquietante e affascinante insieme: una grande massa di acqua che aveva invaso Morraine, trasformandola in una città di canali e piscine, sotto un cielo grigio ma luminoso, come in attesa di nuova pioggia. Un grande lago si stendeva intorno alle mura.

Avevo trascorso la prima parte della notte rivoltandomi per la febbre, poi ero caduto in un sonno profondo, e adesso mi sentivo fresco e pieno di energia, il che può apparire strano, considerando la delusione della sera precedente. Ma forse mi sentivo solo libero per aver abbandonato un sogno che, in cuor mio, avevo sempre saputo impossibile.

 

Mi precipitai alla finestra. Non avevo mai visto tanta neve in vita mia. Una coltre spessa un braccio ricopriva i tetti, e perfino i muri delle torri apparivano incrostati di minute scaglie di ghiaccio, così che il bianco uniforme era interrotto solo dal grigio appena più scuro del fumo che si alzava dai comignoli. E mentre guardavo, uno squarcio si aprì fra le nuvole, e il sole appena sorto colpì di sbieco tutti quei cristalli, traendo da ciascuno un fantasma di arcobaleno.

Battei le mani di gioia e spalancai la finestra. Prima la nuvola del mio fiato, poi quelle del cielo coprirono il sole. Rinchiusi in fretta la finestra, ma considerai la visione apparsami di buon auspicio.

Essendo Morraine una città di corridoi e di cortili, a loro volta quasi sempre circondati da portici, le sue attività non sono particolarmente influenzate dagli eventi atmosferici. Perciò dovetti andare come ogni giorno ad aiutare mio padre nella bottega di falegname. Versò metà mattina, accorgendosi di come guardavo la neve nel Cortile del Nano, e immaginando che volessi andare a giocare, mio padre mi spedì a fare qualche commissione, con la tacita intesa che sarei tornato solo all’ora di pranzo. Io mi precipitai verso il Cortile della Mezzanotte, dopo aver scartato l’idea di cercare Jues e Lucibello: sia perché mi avrebbe portato via troppo tempo, sia perché, dopo il fiasco penoso della recita, preferivo non vederli. Da lì, cercai di ripercorre il tragitto della sera prima, quando inseguivo l’alchimista.

La cosa si rivelò meno facile del previsto. Prima di tutto, era giorno di mercato nel Cortile della Mezzanotte, e a causa della neve le bancarelle erano tutte ammassate sotto i portici. Bisognava scavalcare ad ogni passo mucchi di castagne, noci, fichi secchi, gabbie di uccelli da cortile, e schiere di uccelli selvatici morti, portati dai cacciatori delle colline: gente dalla pelle scura, che sedeva accovacciata sui talloni, avvolta nei mantelli marroni con cui si mimetizzavano per meglio cogliere le loro prede, e che li rendevano simili a cumuli di terra. Dai ganci infissi nelle volte penzolavano file di salsicce fresche, tranci di carne affumicata di natura incerta. E per fortuna, molti a causa della neve avevano rinunciato a venire; in compenso, i cittadini di Morraine erano accorsi numerosi, allarmati dalla medesima neve. I venditori cercavano di approfittarne, e il vociare delle contrattazioni risuonava sotto le volte.

Ma dov’era l’androne che cercavo? Il primo androne, cioè, poiché da questo se ne dipartiva un altro, più stretto, che raggiungeva il cortile senza nome. La luce del giorno e la confusione del mercato rendevano tutto diverso. Mi fermai frastornato. Era come la ricerca della torre, pensai. Non l’avrei mai trovato. Una ragazzina mi si avvicinò offrendomi vasetti di miele, ma desistette subito. Dietro un mucchio di pelli appese, scorsi un arco di pietra sormontato da una testa di unicorno. Mi feci strada fra buoi, conigli, castori, ghibetti, volpi, tutti ridotti a piatti simulacri, da cui emanava l’odore acre della concia. Mi addentrai nell’androne. Ecco: a destra un arco tanto basso che alzando la mano quasi riuscivo a toccarne la sommità. In fondo, sulla parete di sinistra, si scorgeva un vago riflesso di luce. Ricordavo che il passaggio piegava bruscamente a destra. Come se si perdesse nelle viscere stesse di Morraine...

La neve, adesso, ricopriva per intero il selciato del cortiletto, e formava quasi una barriera all’uscita del corridoio, che alla luce del giorno appariva ancora più simile a un pozzo.

Mi fermai sotto l’arco. Non si sentiva il più piccolo rumore: come se Morraine fosse diventata una città morta... no: immersa in un sonno magico, come in una favola che mi era stata raccontata da bambino.

Alzai gli occhi. Un uccello nero attraversò obliquamente il quadrato di cielo grigio. Da un davanzale si staccò una falda di neve, che atterrò con un tonfo fragile. La finestra era protetta da una inferriata, dietro cui si intravedevano dei vetri sporchi, come di una stanza disabitata da molto tempo.

Anche alla luce del giorno non si scorgeva alcuna porta nel perimetro del cortile. Il muro del fianco destro era interrotto verticalmente da un contrafforte, che ricordavo di aver incontrato avanzando a tentoni nel buio. Era anche la direzione verso cui avevo visto sparire le impronte dell’alchimista.

Adesso il manto di neve era uniforme, e provavo una vaga riluttanza a disturbarlo.

Iko, mi dissi: è solo un cortile. E mi spinsi in mezzo alla neve.

Giunto al centro del cortile vidi: un gradino che spuntava dalla neve, nell’angolo fra il contrafforte e il muro; una porticina di legno annerito, larga non più di tre palmi, sopra il gradino; sopra la porta, molto in alto, una fenditura larga altrettanto, che saliva fino al tetto (anzi: i tetti, come se ci fossero due case separate!); e in fondo alla fessura, una torre che poteva o non poteva essere quella da cui ero fuggito qualche mese prima, e che avevamo cercato invano per tutta Morraine.

Dopo un tempo indefinito, ma sufficiente perché la neve sciogliendosi mi penetrasse nelle scarpe, mi avvicinai al contrafforte, e ripetei più o meno i gesti della sera prima. La mia mano passò dalla pietra dello spigolo a quella del muro, saltando la porta.

Tirai un sospiro. Un mistero, almeno, era risolto. Restava da spiegare come avesse fatto l’alchimista ad aprire la porta, che appariva priva di qualsiasi serratura. La spinsi, con una certa riluttanza, ma non si mosse di un’unghia. Fantasticai di qualche meccanismo segreto e tastai il muro intorno alla porta, e anche il gradino fin sotto la neve, trovando solo pietre molto corrose, con la malta fra gli interstizi quasi del tutto dilavata.

Mi resi conto che quella doveva essere una delle costruzioni più antiche di Morraine.

Alzai gli occhi, con un senso quasi di vertigine, e guardai nel varco fra i due edifici. Era un corridoio strettissimo... anzi... cercai nella memoria la parola che dovevo aver letto sui libri, perché non si usa a Morraine... un vicolo. Un uomo dalle spalle larghe avrebbe potuto percorrerlo solo di sbieco. La lunga striscia di cielo, fra i muri privi di finestre, sembrava una spada sul punto di calare.

Tornai al centro del cortile, da dove si poteva scorgere la torre. Forse era davvero quella del Cortile Segreto: la posizione corrispondeva. La piccola porzione visibile non mostrava comunque alcuna corda.

Un’altra falda di neve, cadendo vicino, mi fece sobbalzare. Mi guardai alle spalle. Il vetro di una finestra mandò un bagliore di luce grigia, come se si fosse mosso.

Non c’era altro da fare, lì. Con un senso di sollievo, abbandonai il cortile senza nome e ritrovai il consueto trambusto di Morraine.

(10) LA MAPPA


L’insegna diceva semplicemente:

ARNO BORISSEIN

Libri nuovi e usati

Sotto era dipinto il gufo, o la civetta, che già avevo visto. Nella vetrina erano esposti volumi polverosi, alcuni aperti per mostrare le illustrazioni. Molti erano in lingue straniere o in alfabeti sconosciuti. Non riconobbi nessun titolo.

Tirai un sospiro ed entrai.

Nessuna traccia del proprietario. Dalla porta socchiusa del retrobottega filtrava una luce. Mi avvicinai al bancone. Le mappe non erano state ancora rimesse al loro posto, e giacevano ammucchiate in un angolo. Allungai una mano.

– I libri usati non si cambiano.

Ritirai la mano di scatto, come se fossi stato scoperto a rubare. Il libraio era apparso da tutt’altra direzione che il retrobottega, forse da dietro qualche scaffale.

– Cosa credevi che fosse? – L’uomo indossava lo stesso abito della sera prima. Che non era eccessivamente pulito, come del resto la sua bottega.

Finalmente capii di cosa stava parlando.

– No, non volevo cambiarlo – dissi. – Cercavo... dei libri di teatro.

Arno Borissein mi guardò con sospetto. – Nuovi o usati?

– Usati...

– In questo caso, devi cercarteli da solo. Sono tutti alla rinfusa. – Indicò con un ampio gesto della mano la scaffalatura dove già avevo rovistato la sera prima. – Non posso certo metterli in ordine. La gente crede che fare il libraio sia facile. Nulla di più errato! Ci sono milioni di titoli, antichi e moderni; decine di migliaia di autori. Stampatori, editori, lingue e alfabeti. Occorre discernimento e cultura, pazienza e acume. E poi, di fronte al modesto prezzo di poche lire, o di misere piastre, storcono il naso! Ma un libro è stato pensato e scritto in lunghe notti di veglia; la carta macerata e pressata, i caratteri composti, ordinati, impressi. Le pagine cucite e rilegate. Il volume trasportato per mare e per terra, fino alla bottega del povero Arno di Morraine. Può essere letto e riletto da un numero illimitato di persone per un numero illimitato di volte. Eppure lo pagano una volta sola! – Alzò le mani al cielo, come chiamandolo a testimone di un’ingiustizia.

Io mi dedicai allo studio dei libri usati. Titoli ed autori mi erano per la maggior parte ignoti. Alcuni che suscitarono la mia curiosità li estrassi e li sfogliai. Arno Borissein, nel frattempo, aveva deciso di fidarsi di me e si era nuovamente eclissato.

Nel ripiano più basso scorsi un titolo promettente: Tragiche Historie. Si trattava di una raccolta di canovacci, scheletri di tragedie, senza alcuna grazia di stile o ricchezza di concetti, ma non privi di un fascino che derivava dalla loro essenzialità. Una cosa la rendeva preziosa ai miei occhi: la presenza, fra le sue pagine, della storia di Teseius e Phenissa.

Portai il volume sul bancone, per sfogliarlo meglio, e i miei occhi furono nuovamente attratti dalle mappe. Alcune erano arrotolate, altre ripiegate più volte; la carta era spessa, ma in genere ingiallita, con i bordi frastagliati; alcune mostravano i fili di un tela sottostante, che serviva a renderle più resistenti. Una sola appariva in buono stato; la presi, e la riconobbi subito: era quella che aveva studiato da ultimo l’alchimista.

Quando la toccai, mi parve di avvertire un brivido lieve: era liscia ma leggermente morbida, come un velluto finissimo. L’aprii, sperando di vedere il mare azzurro e profondo... I colori erano vividi, come appena stampati, ma dopo tutto era una normale mappa, e per di più illeggibile, a causa dei caratteri stranieri. Provai a inclinarla in varie maniere rispetto alla luce della lampada, ma la mappa continuò a negarmi le sue meraviglie.

Non mi ero ancora deciso a ripiegarla, quando riapparve Arno Borissein.

– Fai attenzione. Le mappe sono fragili.

– Questa... quanto costa? – mi sorpresi a chiedere.

– Ancora non hai deciso cosa vuoi? Ti avverto: è cara. Appartiene alla Prima Era. Non meno di otto lire!

Era una cifra esorbitante, per una mappa inutile, e lo feci notare al libraio.

– Inutile! – Arno alzò le mani al cielo. – Che ne sai tu?

Prese il volume delle Tragiche Historie. – Forse che queste servono a qualcosa? Ma la gente accorre a vederle, paga per sentirle recitare su un palcoscenico, magari da attori privi di talento!

L’argomento era doloroso, e preferii lasciarlo cadere. Tuttavia c’era qualcosa che non mi convinceva nel ragionamento di Arno.

– Le commedie sono fatte per essere recitate, le mappe per trovare dei posti – obiettai.

Arno Borissein sbuffò esasperato. Ma dopo un attimo, come fra sé, mormorò: – Alla fine, il teatro e le mappe sono solo degli espedienti per sognare.

Di nuovo Arno Borissein se ne andò, ed io di nuovo rimasi solo. La mappa mi attirava in maniera incomprensibile. La spostavo sul bancone, mi rimettevo nella posizione di due sere prima, cercando inutilmente l’abisso del mare e l’asprezza degli scogli e il tremolio delle foglie. Forse, dopo tutto, aveva ragione Arno, e me l’ero solo sognato...

Entrò un cliente. Arno lo servì, poi tornò da me con aria impaziente. E ancora una volta, come mi stava accadendo troppo spesso negli ultimi tempi, mi accorsi di aver parlato prima di pensare.

 

– Chi era quel signore che voleva acquistarla, l’altro giorno? – Arno ci mise un momento prima di rispondere. Il tempo che impiega una falda di neve per cadere da un tetto.

– Ah... l’Adepto. – Alzò le spalle. – No, non voleva comprare nessuna mappa. È sempre così. Chiedono le cose più strane, fanno perdere tempo, poi non comprano niente.

Non capii se parlava in particolare dell’alchimista, o in genere dei suoi clienti.

– Ma... viene spesso?

– Oh, no. Molto raramente. Rimangono quasi sempre chiusi in casa. I maestri, poi, non si fanno mai vedere.

Stavo per chiedere dove rimanevano chiusi, ma poi pensai che non ce n’era bisogno.

E alla fine, dopo aver molto mercanteggiato, uscii dalla bottega di Arno Borissein con la mappa e le Tragiche Historie, al prezzo complessivo di cinque lire e sei piastre. Che era più o meno tutto quello che avevo in tasca.

Chiuso nella mia stanza, mi misi a studiare la mappa. Era diventata quasi un’ossessione per me. La guardavo sotto ogni angolazione, alla luce del sole e della luna, dalla lampada ad olio e della candela. Niente...

O quasi.

Mi ero messo in testa l’idea impossibile di decifrarne la lingua sconosciuta. Avevo compilato un elenco di segni, che raggiungeva un numero esorbitante per qualsiasi normale alfabeto. Molti dovevano essere simboli, e infatti comparivano più volte sulla mappa vera e propria, e di solito una volta sola nelle iscrizioni lungo i bordi. Ma c’erano singolari discrepanze che rendevano impossibile riconoscere una vera e propria legenda. Alcuni segni, poi, si presentavano in forme diverse ma simili: mere varianti grafiche, o lettere diverse? In base all’oggetto indicato, decifrai in via ipotetica tre parole: fiume, monte, e baia.

Avevo diviso la mappa in settori, che non corrispondevano peraltro a quelli tracciati sulla carta, e che presentavano una bizzarra e apparentemente inutilizzabile combinazione di linee verticali, orizzontali e radiali: queste ultime che si dipartivano da due centri situati in maniera apparentemente arbitraria.

La notte era inoltrata e l’olio della lampada stava per finire. Chiusi gli occhi per la stanchezza. Forse mi assopii per qualche momento. Quando li riaprii, volavo. Sotto di me c’era il mare, attraversato da una striscia abbagliante di sole nascente. C’era l’isola verdeggiante, a forma di testa di cigno, con una laguna che si insinuava formando quasi il suo occhio, un molo e bianchi fili di strade. Al centro dell’isola, sul punto più alto, un grande edificio circolare, forse un tempio. Accanto ad esso, una guglia sottile gettava una lunga ombra sulle cime degli alberi.

Ero un uccello che scendeva ad ali distese, in una lenta spirale. Vidi le ombre girare lentamente, l’isola avvicinarsi... sbattei le palpebre, e il mare tornò ad essere di carta.

Il lucignolo della lampada sfrigolava. Emise ancora qualche scintilla e si spense.

Una lenta luce biancastra cominciò a filtrare dalla finestra: la luce della neve sotto un cielo notturno e nuvoloso.

Quel mare, pensai, poteva essere agli antipodi esatti di Morraine.