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Kitabı oxu: «Il Quadriregio», səhifə 17

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CAPITOLO XII

Trattasi di certi che furono viziosi nell'ira, e si passa a discorrere del vizio della gola.

 
        Non medico giammai meglior se trova,
        né piú esperto nella medicina
        che quel che pria l'infermitá in sé prova.
 
 
        Cosí mostrò quell'anima tapina,
    5 che della crudeltá mi disse il vero;
        poscia soggiunse con vera dottrina:
 
 
        – Ogni animo in se stesso è molto altèro,
        se estima alcuno a sé esser fedele,
        e poscia il trova falso e non sincero.
 
 
   10 Se non è, molto piú si fa crudele:
        per questo, Silla dinanzi al senato
        morí per l'ira grande e sputò il fele;
 
 
        ché, come a te Minerva ha giá 'nsegnato,
        contra chi inganna e contra chi dispreggia,
   15 agevolmente ognun diventa irato.
 
 
        Però colui che, lusingando, freggia
        con atti e risa e con dolci parole,
        e poscia inganna come chi dileggia,
 
 
        quel ch'è ingannato, tanto irar si suole
   20 e tanto incrudelir di quell'inganni,
        quanto fidava, e tanto mal gli vuole.
 
 
        Per questo posto son tra li tiranni,
        che, benché mostrin faccia mansueta,
        nascondon lor vendetta sotto a' panni.
 
 
   25 Per cotal colpa io venni a questa meta:
        i traditori a me fûn la cagione
        ch'io diventai crudele e senza pièta. —
 
 
        Domizian mostrommi e poi Nerone
        e molti altri tiranni, e nulla staccia
   30 ha tanti fori, quant'han lor persone.
 
 
        Forata e fessa avean tutta la faccia,
        ed avean mozzo l'uno e l'altro piede
        e dagli omeri suoi ambe le braccia.
 
 
        – Tutta questa gran turba, che tu vede,
   35 la notte – disse – risanan le piaghe;
        poi la mattina, quando il giorno riede,
 
 
        prendon le spade ovver l'acute daghe;
        tra sé fan la battaglia irati e fieri,
        sí ch'elli stessi a sé dánno le paghe. —
 
 
   40 Io stava ad ascoltarlo volentieri,
        se non che Palla disse che n'andassi,
        però ch'altro vedere era mestieri.
 
 
        Per una stretta via vòlse ch'intrassi:
        sempre salendo, giunsi su in un balzo,
   45 ove vendetta della gola fassi.
 
 
        Io dirò 'l vero, e forse parrá falzo:
        vidi in terra utricelli su in quel giro
        ovver vessiche, quando il viso innalzo.
 
 
        E, lamentando con molto sospiro,
   50 gridavano a gran voci: – Omei, omei! —
        come persona afflitta e che ha martíro.
 
 
        Per ammirazion fermai li piei
        dicendo: – Che vessiche o che utricelli
        son questi, che tu odi e che tu véi? —
 
 
   55 E poscia m'appressai a un di quelli
        e dissi: – O utricello ovver vessica,
        prego, se puoi, che tu a me favelli
 
 
        e con aperta voce tu mi dica
        chi sète voi, innanzi che su varchi,
   60 e quale affanno o doglia vi affatica. —
 
 
        Rispose come alcun che si rammarchi:
        – Stomachi siamo noi e molto offensi,
        stomachi siam del troppo cibi carchi;
 
 
        ché Dio ne fece, se tu ben il pensi,
   65 nel corpo umano, ed anco la Natura,
        che 'l cibo a' membri per noi si dispensi.
 
 
        E l'uomo ha fatto di noi sepoltura
        a tutti gli animali: il troppo e spesso
        fa generare in noi ogni bruttura.
 
 
   70 In noi si sepelisce arrosto e lesso;
        e, quando nostra voglia è piena e sfasta,
        s'adduce il terzo, il quarto e 'l quinto messo.
 
 
        Con savoretti or questo or quel si tasta;
        per dilettar la gola e la sua porta,
   75 aggrava noi gridanti: – Oimè, che basta! —
 
 
        Però 'l mal cresce, e la vita s'accorta;
        ché, perché 'l cibo in noi non ben si cuoce,
        si manda a' membri crudo e non conforta.
 
 
        La quantitá del vin, che tanto nòce,
   80 si corrompe pel troppo; e quinci è 'l grido
        delle incurabil doglie e di lor croce.
 
 
        L'animal bruto a Cerere e a Cupido
        non acconsente e non prende acqua o ésca,
        se no' al bisogno, ed anco non fa nido.
 
 
   85 E, benché a noi ed a natura incresca,
        il miser'uomo intana dentro al petto
        ciò ch'anda o vola o che nel mar si pesca. —
 
 
        Io stava ad ascoltar con gran diletto,
        quando Palla mi disse: – Volta il viso. —
   90 Ond'io 'l voltai, sí come a me fu detto.
 
 
        E, risguardando ben con l'occhio fiso
        per l'aer tenebroso e quasi opaco,
        io vidi cosa, che spesso n'ho riso.
 
 
        D'un'acqua fresca vidi un ampio laco,
   95 ed un altro di vin, ch'era sí grande,
        che maggior mai nol chiedería briaco.
 
 
        Intorno a questi eran tutte vivande,
        ed anco vini eletti v'eran tutti,
        che bevitor ovver ghiotton domande.
 
 
  100 Di sopra appresso avean tutti que' frutti,
        che mai fûnno in giardino ovver reame
        o da Natura fusson mai produtti.
 
 
        Lí stavan genti dolorose e grame,
        che per brama del pasto maggior pianti
  105 facean che 'l tristo, in cui entrò la fame.
 
 
        Prostrati in su li liti tutti quanti,
        quando assetiti voglion prender l'onde,
        e l'acqua e 'l vino a lor fuggon dinanti.
 
 
        In questo i pomi con le verdi fronde
  110 si fletton giuso sotto le lor ciglia
        alle bocche affamate e sitibonde.
 
 
        L'uva s'abbassa bianca e la vermiglia,
        sí che tocca la bocca a loro o quasi;
        poi si ritrânno, e mai nessun ne piglia.
 
 
  115 Cosí scornati e delusi rimasi,
        mirano al cibo su le mense posto
        e dell'ottimo vin pien tutti i vasi.
 
 
        Se, per prendere il lesso ovver l'arrosto
        ovver il vino, alcun le man distende,
  120 da sua presenza si fuggon tantosto.
 
 
        In mezzo all'acqua, che 'l laco comprende,
        Tantalo vidi stare insin al labbro;
        e mai dell'acqua ovver de' frutti prende.
 
 
        Sí grande sete mai non ebbe fabbro,
  125 né giovin ch'abbia la febbre terzana,
        che fa la lingua e lo palato scabbro,
 
 
        quant'egli ha sete in mezzo alla fontana,
        quando vuol bere e l'acqua da lui fugge,
        sí che sua spene sempre torna vana.
 
 
  130 E, perché egli niente ne sugge,
        spesso sbaviglia e batte i denti a vòto,
        ché di fame e di sete si destrugge.
 
 
        Cosí privato di cibo e di poto
        sta tra li frutti con bramosa voglia
  135 ed assetito dentro l'acqua a noto.
 
 
        – O tu, che sali sú di soglia in soglia
        – disse uno a me, – nel mondo, onde tu vieni,
        a questa, che tu vedi, è simil doglia?
 
 
        Ché alcun tra gli ampi campi e cofan pieni
  140 bramoso sta e fame non si tolle,
        ché l'avarizia el tien con duri freni.
 
 
        Ver è che dá di morso alle cipolle
        spesso spesso messere Buonagiunta,
        ricco pisan; ma non che si sattolle. —
 
 
  145 Ancora al detto suo fe' questa giunta:
        – Tra molti cibi sta la voglia magra,
        acciò che dal dolor non sia trapunta;
 
 
        ché 'l mal del fianco, febbre e la podagra,
        perché del cibo troppo non s'imbocchi,
  150 menaccia con la doglia acuta ed agra.
 
 
        Ma certo non fu' io di quegli sciocchi:
        io son Pier tosco, che dissi: – Addio, lume,
        ch'i' ho piú caro il vin, che non ho gli occhi.
 
 
        Il medico dicea: – Bevi del fiume,
  155 ché, se tu bevi mai rinchiuso in botte,
        convien che 'n te il vedere si consume.
 
 
        Del buon liquore, che al lor padre Lotte
        fecer le figlie, io bevvi un grosso vaso,
        dicendo: – O giorno, addio, ch'io vo di notte. —
 
 
  160 Quel poco lume, che m'era rimaso,
        ché l'altro m'avea tolto la taverna,
        ecclipsò tutto calando in occaso:
 
 
però sto qui ed ho la sete eterna. —
 

CAPITOLO XIII

Delle specie e rami discendenti dal vizio della gola.

 
        Io stava ad ammirar cogli occhi attenti,
        quando Palla mi disse: – Ché non miri
        del vizio della gola i gran tormenti? —
 
 
        Allor mirai; e giammai li martíri
    5 dir non potrei con questo parlar brieve,
        a' quai conduce Bacco, e li sospiri,
 
 
        non per colpa del vin che si riceve
        (che utile è da sé e ben conforta,
        se temperatamente altrui lo beve),
 
 
   10 ma perché la fortezza, ch'è giá morta,
        par che susciti alquanto nel presente:
        però la gente matta e non accorta
 
 
        a questo mira; ed anco che splendente
        entra e soave, e non sguardan li matti
   15 che 'l troppo morde, poi, piú che serpente.
 
 
        Quindi son gli occhi rossi e i nervi attratti,
        il furor cieco, rabido e rubesto,
        e di scimia canini e porcini atti.
 
 
        Quando Minerva m'ebbe detto questo,
   20 vidi una donna tutta brutta ed unta,
        e col volto lascivo e disonesto,
 
 
        ch'avea la vesta stracciata e consunta,
        e di cane e di porco avea due grugni
        e lingua a spada armata su la punta
 
 
   25 e le man fure ed artigliose l'ugni,
        e, come fa 'l leon, quando divora,
        mangiava il pasto, ch'avea tra li pugni.
 
 
        – O tu, che qui contempli la signora
        – disse a me un, – che regge questo loco,
   30 sobvieni al gran dolor, il qual m'accora.
 
 
        Alla mia lingua, ch'arde come foco,
        un poco d'acqua con la man mi dona,
        che tanto incendio in lei rifreddi un poco. —
 
 
        Ed io fra me: – Quest'è quella persona,
   35 che non sobvenne a Lazzaro mendíco,
        sí come Luca nel Vagniel ragiona. —
 
 
        Ed io risposi a lui: – Tu sai, amico,
        che Abraam, a cui chiedesti l'acque,
        rispose a te, sí come anch'io ti dico:
 
 
   40 – Lazzaro giá alla tua porta giacque
        infermo e nudo, e chiedeva mercede;
        e di lui mai in te piatá non nacque.
 
 
        Dio vuol che chi abbundò e non ne diede
        al povero di Dio, quando ne chiese,
   45 egli non n'abbia qui, quando ne chiede. —
 
 
        Ahi, quanto si scornò, quando m'intese!
        E dicea seco com'uom che borbotta:
        – Io mi credea che fussi piú cortese. —
 
 
        Ed io lo addomandai e dissi allotta:
   50 – Perché la lingua qui ha maggior pena
        che gli altri membri, e piú è incesa e cotta? —
 
 
        Rispose: – Nella mensa lauta e piena
        Cerere e Bacco fan le teste calde;
        la lingua allor nel van parlar si sfrena
 
 
   55 con motti lerci e con parol ribalde;
        e, mentre il buon Falerno i cor fa lieti,
        balestra le iattanze ardite e balde.
 
 
        Allor s'apre il serrame alli secreti:
        sempre mal tace la mensa satolla,
   60 se i mangiator virtú non fa star cheti.
 
 
        Quivi si sparla che fama si tolla,
        quivi la lingua dá le gran percosse
        e strazia l'altrui vita, rode e ingolla.
 
 
        Per questo noi abbiam le lingue rosse
   65 d'ardente foco e abbiamole puntute,
        come di spada ognuna armata fosse.
 
 
        Se vuoi saper dell'anime perdute,
        che stanno qui pel vizio della gola,
        che solo in general forse hai vedute,
 
 
   70 qui stanno li scolar di monna Ciuola;
        tra' quali è Ciaffo, e fu di Camollía,
        che piú degli altri usava quella scola.
 
 
        Egli anche dice che si bevería
        del vino il laco, quando egli s'approccia,
   75 se non che tosto se ne fugge via;
 
 
        e dice che, a la bocca se la doccia
        di Fontebranda avesse e fusse Greco,
        la bevería sin all'ultima goccia.
 
 
        E molti altri compagni son qui meco,
   80 tra' quali è la brigata spendereccia
        che fe' del molto avere il grande spreco.
 
 
        Chi spreca, quando egli ha la bionda treccia,
        degno è che, quando giunge al capo cano,
        venga di povertá sino alla feccia.
 
 
   85 Da Leonina infino a Laterano
        stanno anche meco mille ghiottoncelli,
        e dicono che gli uomin di quel piano
 
 
        prendon per paternostri i fegatelli,
        l'aman per tempo in cambio della Chiesa,
   90 corrono alle taverne ed ai bordelli. —
 
 
        Io l'ascoltava colla mente attesa,
        quando Palla mi fe' del partir cenno;
        onde n'andai per la via da noi presa.
 
 
        Cinquanta passi e men da noi si fenno,
   95 ch'ella mi disse per farmi ben dotto:
        – Contra golositá fa' ch'abbi senno.
 
 
        Sappi che gola è appetito ghiotto
        d'aver diletto in pasto e sí bramoso,
        che vince la ragion e tienla sotto.
 
 
  100 S'è naturale, non è mai vizioso;
        e vizioso si fa, se sfrena tanto,
        che a Dio ed a ragion vada a ritroso.
 
 
        Questo appetito può sfrenar nel quanto:
        in troppo prender pasto, in troppo stare
  105 a mensa, in troppi cibi, in buffe e canto.
 
 
        Nel quale ancora questo può peccare,
        quando non fame l'appetito sveglia
        ovver bisogno, ma sol dilettare.
 
 
        Ahi, come è dur sí ben guidar la breglia
  110 tra 'l quanto e 'l qual nel pasto, ch'uom non cada,
        se molta vertú attenta non ci veglia!
 
 
        Ché questo passo ognun convien che guada
        del prender pasto; ma servar misura
        è forte, se vertú ben non vi bada.
 
 
  115 Quand'altri sfrena sí, che troppo cura,
        perché con dilicanza s'apparecchi,
        costui pecca nel qual ed epicura.
 
 
        Non in un modo i cibi, ma in parecchi,
        non per bisogno 'i cuoce e s'affatica:
  120 però Natura fa che raro invecchi.
 
 
        Ahi, gola miseranda! ché la mica
        col favor della fame ha piú diletto
        che le molte vivande, e me' notríca.
 
 
        Mira colui che quivi sta a rimpetto. —
  125 Ed io sguardai, e ben due passi e piue
        aveva il collo lungo sopra il petto.
 
 
        – Colui desiderò 'l collo di grue
        – disse a me Palla, – a dar piú dilettanza
        alla sua gola, il cibo andando ingiue.
 
 
  130 Or l'ha sí lungo, ch'ogni struzzo avanza;
        e la sua gola sempre di sete arde,
        né mai di poter bere egli ha speranza.
 
 
        Nel tempo ancor si pecca, se ben guarde:
        in questo peccan le persone stolte,
  135 ch'al pasto sempre lor par esser tarde.
 
 
        Non due fiate il dí, ma vieppiú volte
        il poto e 'l cibo da questi si prende,
        come le bestie fan, che son disciolte.
 
 
        Nel modo d'usar cibi anco s'offende,
  140 ch'alcuno è scostumato, alcun ghiottone,
        alcun le braccia su la mensa stende.
 
 
        Anche è vorace alcun come lione;
        ed alcun su nel cibo soffia il fiato,
        alcun per fretta va incontra 'l boccone. —
 
 
  145 Quando Minerva questo ebbe parlato,
        quell'Epicur col collo di cicogna
        rispose e disse con lungo palato:
 
 
        – Ancor detto non t'ha ciò che bisogna,
        ché non t'ha detto le cinque figliuole,
  150 perché nomarle forse si vergogna.
 
 
        La prima figlia, che saper si vòle,
        è Immondizia del cibo, che guasto
        corromper in lo stomaco si suole;
 
 
        ché, quando ha troppo vin con troppo pasto,
  155 perché cuocer nol può, fuor per la bocca
        corrotto esala e fa al naso contrasto,
 
 
        e sopra erutta e sotto quello scocca,
        il qual balestra come traditore,
        che apposta alle calcagne, e 'l naso tocca.
 
 
  160 La seconda figliola è vie peggiore,
        Ebetudo, di mente inferma e mesta,
        che toglie all'intelletto ogni valore.
 
 
        La terza ha nome brutta e trista Festa,
        di buffonie e di giuochi; e questa è quella
  165 che al Batista giá tagliò la testa.
 
 
        La quarta è quella che troppo favella.
        La quinta è truffe ed opere scurrile:
        questa in la lingua porta la fiammella,
 
 
e nullo è vizio piú che questo vile. —
 

CAPITOLO XIV

Della lussuria e delle sue specie.

 
        Su nell'ultima piaggia io era giunto;
        e, quando per la strada io movea 'l passo,
        scontrai Cupido, il qual m'avea trapunto,
 
 
        non però mai ch'e' mi gittasse al basso:
    5 timor di Dio e vergogna del mondo
        mi tennon ritto come quadro sasso.
 
 
        Trovai adunque lui vaghetto e biondo,
        de cui beltá negli altri versi scrissi,
        che mai sí bello fu, né sí giocondo.
 
 
   10 Ma ora veggio ben che 'l falso dissi;
        ch'egli è crudele e brutto e pien di tosco,
        chi ben rimira lui cogli occhi fissi.
 
 
        Quando mi vide, egli fuggí in un bosco,
        ch'era ivi appresso, ove nulle eran frondi;
   15 ma era smorto, secco e tutto fosco.
 
 
        – Perché, Cupido, da me ti nascondi?
        – chiamava io forte, dietro seguitando; —
        perché pur fuggi, perché non rispondi?
 
 
        Io son colui che teco venni, quando
   20 le ninfe mi mostrasti e la via dura,
        e sempre stetti presto al tuo comando.
 
 
        Demostra la tua faccia bella e pura. —
        Allor voltossi, ed era sí travolto,
        che, quando el vidi, mi mise paura.
 
 
   25 Egli era smorto, e gli occhi brutti e 'l volto;
        e su nel capo nero avea due corni,
        e gli atti avea pazzeschi come stolto.
 
 
        Allor fuggio da me com'uom che scorni,
        coll'arco in mano e cogli oscuri dardi;
   30 né credo che piú a me giammai ritorni.
 
 
        La dea a me: – Se questo Amor riguardi,
        egli è cosa infernal, e chi lo scuopre
        conosce i modi suoi falsi e bugiardi.
 
 
        Chiamato è 'l forte dio nel mondo sopre
   35 da quegli stolti, che sol guardan fòre
        all'apparenza, che spesso il ver copre.
 
 
        Ma, perché sappi ben che cosa è amore,
        sappi che amore è presente diletto
        ovver futur piacer, che spera il core.
 
 
   40 E questo puote aver triplice obietto:
        primo è l'utilitá, qual se si toglie,
        manca l'amor, che all'util facea aspetto.
 
 
        L'altro è amor vero, a cui le verdi foglie
        non secca tempo o loco, e che sta fermo
   45 ad ogni caso, che Fortuna voglie;
 
 
        e non è losinghiero in atti o sermo
        e coll'amico sta costante e vivo,
        quando è in avversitá povero o infermo.
 
 
        E questo vero amore, il qual descrivo,
   50 si chiama virtuoso ovver onesto,
        tesoro alli mortal celeste e divo.
 
 
        Il terzo amor, ch'io dico dopo questo,
        «piacer concupiscibile» si chiama,
        ché sol da corporal desio è desto.
 
 
   55 E questo è il folle amore, il qual tant'ama,
        quanto dura il diletto e la bellezza,
        e poi si secca in lui la verde rama.
 
 
        Questo è Cupido, di cui gran fortezza
        racconta il mondo e ch'a nullo perdona
   60 e che infiamma li dii e la vecchiezza;
 
 
        e che giá ferí Febo si ragiona,
        quando la bella Dafne si fe' alloro,
        che imperatori e poeti incorona;
 
 
        e ch'egli porta le saette d'oro,
   65 e Pluto innamorò, quando gli piacque,
        e Iove fe' mutar in cigno e toro.
 
 
        Di questo anco si dice ch'egli nacque
        di quella che fu data a dio Vulcano,
        nata de' membri osceni in mezzo all'acque.
 
 
   70 E dal ver, forse, questo non è strano;
        ché di Venus, cioè concupiscenza,
        nasce Amor cieco, fanciullesco e vano;
 
 
        e da quel nasce poi la rea semenza
        di molti vizi, a' quai lussuria induce.
   75 E, perché n'abbi perfetta scienza,
 
 
        sappi che la Natura e l'alto Duce
        ad alcun fin perfetto ha ordinato
        ogni appetito che 'n voi si produce.
 
 
        E, se da quel buon fin è disviato,
   80 quanto quel fine ha piú perfezione,
        chi erra in quello fa maggior peccato.
 
 
        Tra tutte cose uman, che sonno buone,
        la meglio è conservar l'umana spece,
        prima nell'esser, poi in coniunzione.
 
 
   85 Ed a questi duo fin l'alto Dio fece
        l'appetito lascivo: a questo solo,
        ed a null'altro fine usarlo lece.
 
 
        Di questo al padre nasce il bel figliolo
        e tutta prole umana, il degno frutto
   90 fatto a laudare Dio nell'alto polo.
 
 
        E, se questo buon fin fusse distrutto,
        mancaría l'uomo, amore e parentele
        e stato di vertú verría men tutto.
 
 
        Adunque quel peccato è piú crudele,
   95 dal qual questo buon fine è impedito;
        e questa specie a Dio piú è infedele.
 
 
        Questo è il vizio nefando subdomito,
        pien di vergogna detestando scelo
        e strazio umano e infernale appetito,
 
 
  100 pel qual il foco piobbe giá da cielo
        infino a terra e aprilla ed engollosse
        insieme il biondo col canuto pelo,
 
 
        l'un ch'era stato, e l'altro che non fosse
        corrotto tanto. Ahi, smisurato eccesso,
  105 che Dio facesti che tant'ira mosse!
 
 
        Per questo in terra fu il diluvio messo,
        quando Dio vide che malizia tanto
        avea corrotto l'uno e l'altro sesso.
 
 
        E, per disfar cotanto infetta pianta,
  110 Noè servò e i figli dentro all'arca,
        sola nel mondo la progenie santa.
 
 
        Natura d'esta offesa si rammarca
        innanti a Dio e priega ch'egli scocchi
        le sue saette quel sommo Monarca.
 
 
  115 Dell'altro vizio omai convien ch'io tocchi,
        ch'è grosso come trave, e quasi stecca
        vien reputato da' miseri sciocchi.
 
 
        Dicon che uomo e femmina non pecca,
        consentendosi insieme, essendo sciolti,
  120 se l'un coll'altro fornicando mecca.
 
 
        E, perché in questo error son ciechi molti,
        tanto è piú grave il mal, se ben discerno,
        quanto nel suo error ne tien piú involti.
 
 
        Sappi che ha ordinato Dio eterno
  125 che tutti gli animali, i cui figlioli
        richiedon padre e madre e suo governo,
 
 
        che insieme s'apparecchino duo soli,
        (o reptile che sia o quadrupéde,
        o che in acqua ovvero in aere voli),
 
 
  130 e stiano uniti insieme in questa fede,
        ché, quando avvien che alcun di loro si parte,
        s'abbandonan li figli, s'e' non riede.
 
 
        E, se il padre e la madre ognun ci ha parte
        giá nella nata ovver nascenda prole,
  135 pensa se pecca qual di loro si parte;
 
 
        ché, se l'un lassa l'altro, quando vuole,
        chi il patrimonio e senno dá alli figli?
        chi guarda e dá la dote alle figliole?
 
 
        Però determinonno i gran consigli
  140 della ragione e delli saggi antichi
        che sien le mogli e sien padrifamigli.
 
 
        Questa la casa e quel di fuor notríchi
        i maggior fatti, ed insieme coniunti
        nel matrimonio fedeli e pudichi.
 
 
  145 Del terzo vizio se vuoi ch'io racconti,
        è l'adulterio; e piú pericoloso
        nullo è nel mondo e che piú altri adonti.
 
 
        Quando la moglie si tolle allo sposo,
        l'animo mite rabido diventa:
  150 tanto al consorzio uman questo è noioso.
 
 
        Per questo Troia fu deserta e spenta,
        e la real progenie fu disfatta
        in Roma, che di Troia fu sementa.
 
 
        Questo peccato in ciel gran colpa accatta;
  155 ché avviene spesso che 'l marito pasce
        gli altrui bastardi e la moglie gli allatta.
 
 
        E, quando cresce ed è fuor delle fasce,
        avvien che alcuna al fratel si marita
        e forse al proprio padre, del qual nasce.
 
 
  160 Perché la moglie è col marito unita
        in una carne in fede ed amor puro
        per tutto il tempo che dura lor vita,
 
 
        però chi cerca averla, è ladro e furo;
        e, se la donna ad adulterio piega,
  165 commette anco peccato grave e duro,
 
 
        ch'è traditrice, fuia e sacriléga,
        ch'al matrimonio e fede fa lo 'nganno
        ed anco al sacramento che la lega;
 
 
        e dell'altrui sudore e dell'affanno
  170 spesso nutríca li figlioli altrui,
        onde è tenuta a soddisfar il danno
 
 
al marito, che crede che sian sui. —
 
Yaş həddi:
12+
Litresdə buraxılış tarixi:
11 avqust 2017
Həcm:
390 səh. 1 illustrasiya
Müəllif hüququ sahibi:
Public Domain

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